Uno degli annunci di lavoro più celebri della storia è quello che Ernest Shackleton pubblicò sui giornali nel 1914 per la ricerca del suo equipaggio per la spedizione in Antartide, la Spedizione Endurance:
“Cercasi uomini per viaggio pericoloso. Salario basso, freddo tremendo, lunghi mesi di completa oscurità, pericolo costante, ritorno in dubbio. Onore e riconoscimenti in caso di successo”
Una storia citata tanto spesso da essere diventata ormai familiare. In alcuni casi utilizzata come esempio del concetto tanto abusato di “leadership”. In realtà, dato anche il tragico esito della spedizione, l’annuncio dimostra prima di tutto una cosa: che anche le missioni più incredibili ed i lavori più assurdi hanno bisogno dei loro annunci efficaci. Se anche Sir Shackleton ha trovato il suo team in quell’occasione, allora c’è davvero speranza per tutti.
La sua spedizione andò talmente male che la sua nave fu ritrovata solo il 9 marzo 2022 dal Falkland Maritime Heritage Trust, che ha annunciato che il relitto della Endurance è stato localizzato ad una profondità di 3.008 metri nel Mare di Weddell, a circa sei chilometri da dove l’imbarcazione si era inabissata nel 1915.
La nave si era incagliata dopo pochi mesi di navigazione, ma miracolosamente si salvarono tutti. Ciò che desta più stupore è il fatto che il suo equipaggio, non soddisfatto evidentemente di quella avventura così incredibile, lo seguì in altre spedizioni, fino all’ultima del 1920. Per capire quanto erano ingaggiati i suoi uomini e quanto fu assurda la scelta di seguirlo verso nuove mete, occorre soffermarsi meglio sulla spedizione Endurance: la nave salpò il 5 dicembre 1914, nel 1915 raggiunse il mare di Weddell e poco dopo si incagliò nella banchisa e andò alla deriva e dovette essere abbandonata. In quella situazione fu completamente distrutta dalla pressione del ghiaccio. Shackleton fece trasferire l’equipaggio sulla banchisa, costruirono un accampamento d’emergenza, e vi rimasero fino al 1916. Quando questa incominciò a sciogliersi intrapresero un lungo viaggio per la ricerca di soccorsi che è rimasto nella storia, letteralmente impossibile per le condizioni e le distanze percorse. Nessuno può rimproverargli di non essere stato onesto quando aveva pubblicato il suo annuncio di lavoro. Generalmente nelle situazioni complesse molti manager iniziano a fare pressione sui propri team e a cercare i responsabili dei fallimenti, cosa che nel caso di Shackleton avrebbe portato alla morte dell’equipaggio.
E dunque possiamo trarre già qualche idea da questa storia: non solo è necessario un buon annuncio di lavoro, ma è utile anche una buona dose di trasparenza. Inoltre, quando un gruppo di lavoro è preso dagli obiettivi, è coinvolto nella missione, quando cioè in sostanza è travolto dalla passione per ciò che fa, sarà disposto a seguire fino in capo al mondo (letteralmente) il proprio capo equipaggio (o manager, o azienda, potremmo dire). Questa storia in realtà ha poco a che fare con la “leadership” (parola ormai abusata) e molto con la cultura del lavoro: quanto ci coinvolge ciò che facciamo? Che senso ha per noi ciò che stiamo facendo? Quanto siamo coinvolti dall’organizzazione per la quale lavoriamo? In una sola domanda: che ruolo abbiamo? Questo tema, che sembra completamente fuori dai radar del mondo del lavoro, è invece centrale, troppo spesso infatti i reclutatori vogliono “venderci” una posizione che si rivelerà molto differente da ciò che andremo a fare e questa è una modalità sempre più controproducente di assumere le persone. Immaginiamo Shackleton che nel suo annuncio promette una spedizione divertente, emozionante e capace di arricchire i partecipanti: la storia sarebbe finita diversamente, con molta probabilità. Una buona progettazione delle posizioni renderà molto facile una selezione, ma soprattutto è importante non creare false aspettative negli interlocutori e lasciare il marketing fuori dai sistemi di reclutamento, almeno in fase di conversazione.
Non è un caso se sempre più spesso le persone lasciano il proprio lavoro (e sempre più le nuove generazioni), perché lo percepiscono distante dalle proprie aspettative, un senso di distanza che diventa più difficile da gestire quando invece ci era stato raccontato qualcosa di diverso in fase di reclutamento. Non c’è nulla di male nel considerare il proprio lavoro una vera avventura professionale, come farebbe un esploratore, ed è forse giunto il momento di lasciare che le persone vivano il lavoro con uno spirito differente, ossia con la voglia di sentirsi completamente investiti da ciò che fanno. In questo, però, aiuta molto la creazione dello spazio necessario da parte di aziende e management.